povero e nuovo lì tra il Fiume e la Serra dei Gerais,
dove l’odore dei buoi
appena cominciava a correggere
l’aria aspra delle erbe e degli alberi della macchia...
João Guimarães Rosa (1908-1967),
Una storia d’amore
Ho conosciuto la sapida e intrigante pittura di Betty Vivian, un paio di anni fa, in occasione di una sua personale in una galleria del centro di Treviso. Generata dalla sua esperienza brasiliana, anima, colori, paesaggio. Accesa e aggressiva, niente affatto idilliaca. Vivian soprattutto racconta e rievoca, assorta in visioni che assomigliano molto ad una sorta di fermoimmagine. Potere forte della memoria: rielabora, scandisce, filtra. La suggestione enfatizza l’idea di partenza, il nucleo concettuale. E avvicina ad una visione della vita meditante e innamorata.
Perché sono luoghi che hanno confitto radici profonde nel cuore e nella mente. Prendono luce da ogni sorgente luminosa. Tendono a configurarsi non tanto come paradiso perduto, ma come un paradiso possibile. Se la mano dell’uomo saprà conservare e accarezzare e non distruggere. Solo se il presidio di una cultura primigenia saprà resistere agli assalti del consumismo e della globalizzazione. Colpisce, in questa narrazione / riflessione, l’uso spregiudicato del colore, in una sorta di neoimpressionismo che amplifica e moltiplica la tavolozza. Nell’ambito del cosiddetto realismo magico? È certo che qui la realtà collassa in una visione atemporale (fermoimmagine, si diceva) che consente di osservare -un paesaggio come un ritratto- da punti di vista diversi e cangianti. Quasi uno straniamento che agisce su ogni tela e sul dialogo che questa sa instaurare, con immediatezza, col fruitore. Qui respirano i miti ancestrali della terra brasiliana, qui vengono incorporati gli elementi più vitali e primordiali del folklore. E la voce narrante si dipana con simpatia, con sorriso. La riflessione sul patrimonio valoriale che su questo mondo insiste, arriva subito dopo, mediata da una illuminazione e introdotta dalla semplicità degli elementi compositivi. Acque, alberi, foreste (ne rammento una assolutamente affascinante dominata dal blu, fiabesca, assurda e tuttavia verissima), colline, case che si specchiano in paludi iridescenti, uccelli che si innalzano da lagune fantasmagoriche. Una piroga ad attraversare, una presenza umana appena intuita. Oppure i ritratti, soprattutto di fanciulli il cui baricentro sono sempre gli occhi. Talora chiusi, come afferrati da un retropensiero. Davvero magico questo moltiplicarsi delle prospettive (e davvero coraggioso l’uso del colore che talora assurge al ruolo di protagonista assoluto). E tuttavia la dimensione magica non esaurisce la tensione emotiva della pittura di Vivian. Perché incombe un’aura sacrale, l’afflato di un nume. Il segreto di una pittura solo apparentemente semplice è proprio nella dialettica tra un realismo convinto e la dimensione metafisica che riesce a far intuire. E alla quale in modo irrevocabile rimanda. Verificabile soprattutto negli intrichi delle foreste che alludono all’enigma e al mistero. O negli occhi / finestre delle case che richiamano un sabba fantastico e frugano nell’anima del fruitore. È la forza trascinante del mito, che coinvolge la mente e il cuore. La sensorialità assoluta che promana dalle tele di Vivian è solo un portale. Serve un passo (solo un passo, niente più di un passo) oltre la soglia. Allora si è coinvolti nel fascino di una dimensione aliena e trasportati in un altrove che è reale e fantastico insieme. Naturalmente (e per definizione) il magico non si spiega, il mistero non va svelato fino in fondo. Anzi è buona norma arrestarsi sul limitare di esso. Con pudore e saggezza. Credo che sia per questo che ho guardato (e goduto) i quadri dell’artista trevisana facendomi cogliere da una misura crescente di silenzio interiore. È così che il numinoso entra nell’anima e racconta il mito ancestrale delle origini e, ad un tempo, della quotidianità. Il remoto passato e l’oggi coesistono. Nodo inspiegabile e certamente contraddittorio, che solo l’arte sa sciogliere (non spiegare). Il misterioso e ciclico ripetersi degli eventi, la concretezza evanescente della scia di una piroga, il decollo leggero e impressionante dei fenicotteri dalla barena. L’immagine che rimanda all’essenza ultima delle cose. Il lampo che rischiara quanto basta per procedere ancora un po’. Il cammino del giorno dopo giorno. Il tempo che si distorce nello sguardo di un bambino o nel naufragio su un bagnasciuga. Culture e sensibilità diverse si mescolano, si riconoscono tra loro. Miracoloso.